2019
Enrico Bragastini

La mia arte

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“Il resto è silenzio”. Di tutte le frasi di Shakespeare da cui potevamo prendere ispirazione per il nostro manifesto e per la nostra opera ho scelto proprio questa. Tolta dal contesto in cui l’autore l’aveva utilizzata, questa frase può esprimere forti concetti, appartenenti a moltissimi ambiti. Tra tutti, ho scelto di collegarla al Judo, lo sport che pratico da più tempo.
Che cos’è il Judo? Molta gente ne ha sicuramente sentito parlare, o magari lo ha visto in televisione in periodo di Olimpiadi, ma cosa intendiamo quando parliamo di Judo? Potremmo dire che si tratta di uno sport, un’attività fisica. Vediamo, infatti, che ci sono delle competizioni, anche se poco trasmesse in televisione, con dei combattimenti, che comprendono un certo sforzo fisico. Questo, però, non è abbastanza, non si tratta solo di forza. Possiamo dire che si tratti anche di un insieme di tecniche per la difesa personale? Questa definizione si avvicina già di più. Aggiungiamo quindi che si tratta che si tratta di un’arte marziale. Siamo arrivati ora a una definizione quasi perfetta. Ma il Judo, oltre a tutto ciò, è uno stile di vita.
Il Judo nasce in Giappone nel 1882, con la fondazione del Kodokan da parte del Maestro Jigorō Kanō. Le tecniche che lo compongono derivano in gran parte dal Jujitsu, da cui sono state tolte le pratiche più rischiose. Kanō elaborò assieme ai suoi primi allievi un nuovo stile, non improntato solamente al combattimento, ma dando importanza al raggiungimento della Via e la tecnica in sé viene concepita come mezzo per raggiungere questo scopo. Judo è composto dalle parole Ju, con i significati di “gentilezza”, “adattabilità” e “cedevolezza”, e Do, che significa “la Via”. È quindi traducibile come “via della cedevolezza” e Kodokan significa “Scuola per lo studio della Via”.
«Il jūdō è la via più efficace per utilizzare la forza fisica e mentale. Allenarsi nella disciplina del jūdō significa raggiungere la perfetta conoscenza dello spirito attraverso l’addestramento attacco-difesa e l’assiduo sforzo per ottenere un miglioramento fisico-spirituale. Il perfezionamento dell’io così ottenuto dovrà essere indirizzato al servizio sociale, che costituisce l’obiettivo ultimo del jūdō […]» (Jigorō Kanō)
Io pratico il Judo da ormai tredici anni e ritengo che abbia modificato il mio modo di pensare, di ragionare e di pormi di fronte ai vari problemi che possono presentarsi nel corso della vita.
Sul tatami, in palestra, viene insegnato che la forza non è niente se non viene applicata razionalmente, mirando ad ottenere il massimo risultato con il minimo dispendio energetico, senza voler contrastare una forza avversaria con una equivalente o superiore, ma sfruttandola a proprio vantaggio.
Per raggiungere la Via, i risultati si ottengono con persistenza e impegno. Se si vuole raggiungere una tecnica perfetta è necessario investire del tempo nella pratica di ciò che si intende ottenere, che va speso con impegno per migliorare sé stessi. Si impara, quindi, a gestire la frustrazione per qualcosa che non riesce.
Il rispetto è la base di tutto. L’inizio di ogni allenamento è sempre celebrato da un saluto formale, così come quando si termina, prima di uscire dal tatami. Lo stesso avviene per i combattimenti, alla fine dei quali la stretta di mano tra gli atleti è obbligatoria, a prescindere dal risultato dell’incontro. Si impara a superare il concetto del vincitore e del vinto, apprezzando l’attività svolta assieme. Questo comportamento è da ricercarsi anche fuori dalla palestra, all’interno delle società.
Come ogni arte marziale, prevede delle tecniche che possono provocare anche del dolore fisico. L’atleta è portato a sopportare e ad affrontare la paura di essere proiettato con una certa violenza, di subire una leva articolare o anche uno strangolamento. L’esercizio porta a sorpassare la paura, riuscendo a eseguire certe pratiche con normalità e quasi indifferenza, senza ripercussioni fisiche.
Nella mia carriera da judoka ho provato sia l’esperienza del combattimento agonistico, che quella di una dimostrazione più formale. Non vi è una grossa differenza emotiva tra le due: la sensazione che provo durante lo scambio di tecniche è di un distacco con il mondo esterno. Al momento del “Rei”, il rituale del saluto, la mia mente si rilassa, nonostante l’agitazione. Mentre il cuore spinge, cercando di portare ansia, il mio cervello mette in silenzioso ogni disturbo esterno con il solo scopo di rimanere focalizzato su ciò che sta per avvenire.
Vorrei ora tornare alla frase di Shakespeare dalla quale sono partito, “Il resto è silenzio”. Queste parole famosissime vengono rivolte, poco prima di morire, da Amleto all’amico Orazio ed il loro significato va interpretato. Vi sono varie letture riguardo a cosa intendesse l’autore con le parole “resto” e “silenzio”.
Dopo tanti orrori, vendette, ambizioni, dopo tante parole, spesso ingannatrici e menzognere, il “resto”, ciò che realmente rimane, è “silenzio”, la dimensione in cui l’uomo non tenta più neppure di spiegare formalmente la propria storia, la propria anima, ma si lascia avvolgere dal caos della vita e della morte.
Io ho tentato di estrapolare le parole dal contesto tragico in cui sono inserite per cercare un aggancio alla passione che porto avanti, spesso in silenzio, da più tempo. Vedo, infatti, il judo come una filosofia di vita e di pensiero molto ampio e in continua espansione, che non si può né comprendere né spiegare bene con le parole. Gli atleti che decidono di intraprendere un percorso di allenamenti, per partecipare alle competizioni agonistiche, oppure uno di studio, per salire gradualmente di grado, impiegano parte della loro vita per raggiungere lo scopo. E solitamente non hanno bisogno di descrivere o raccontare le ragioni che li hanno spinti verso lo “studio della via”. L’espressione finale del loro impegno, che può essere un combattimento oppure una dimostrazione di tecniche, richiede una concentrazione speciale, tale da isolare l’atleta da tutto il resto. E, nel silenzio, ci si spinge a trovare strade antiche, solitarie, pregnanti… verso la propria anima.

Spiegazione opera:
La rappresentazione grafica indica per me cosa significa il Judo. I sette judoka stilizzati disposti in cerchio rappresentano per me l’essenza di questo sport. Quando si parla di Judo parliamo anche di una grande comunità composta da atleti di ogni provenienza, sesso e età. Non vi sono distinzioni tra loro, se non il grado della cintura. I colori dei judoka stilizzati illustrano quindi i primi sette gradi di cintura, dal bianco per i principianti al nero per gli esperti, passando per quelli intermedi.
Al centro ho posizionato due atleti durante un combattimento, nel momento della proiezione che segue l’esecuzione di una tecnica. La tecnica, secondo il mio modo di pensare, è l’espressione massima dell’impegno durante gli allenamenti.